Avvicinamento a familiare handicappato

Avvicinamento a familiare handicappato

Cassazione Sezione Lavoro

SENTENZA n.829 del 20 Gennaio 2001

Trasferimento del lavoratore -Avvicinamento a familiare handicappato – Fattispecie (L. 5 febbraio 1992 n. 104, legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate, art. 33).

In sintesi la Corte statuisce che:
Il lavoratore, familiare (nella specie, fratello) di portatrice di handicap, il quale si sia allontanato dalla sede di origine per prestare servizio altrove, non ha diritto al trasferimento in quest’ultima, ove nel frattempo ha iscritto la propria residenza, per effettuare assistenza alla sorella.

Motivi della decisione

Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 33, 5° comma, L. 5 febbraio 1992 n. 104, nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 44 c.c. e dell’art. 31 disp. att. c.c..

In particolare la ricorrente azienda lamenta che il tribunale non ha tenuto conto che l’art. 33 L. n. 104 del 1992 riconosce solo al lavoratore, che assiste con continuità un familiare, di scegliere ove possibile la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e solo all’atto della sua assunzione, e di non essere trasferito senza il suo consenso.

Ricorda ancora la ricorrente che il giudice delle leggi, con sentenza 29 luglio 1996, n. 325 (Foro it., Rep. 1996, voce Invalidi civili e di guerra, n. 41), ha dichiarato non fondata la questione di costituzionalità, sollevata proprio sul presupposto che la norma in esame esclude il caso dei dipendenti pubblici e privati, che nel corso del rapporto di lavoro intendono ottenere il trasferimento per instaurare un’assistenza continuativa. Il Tribunale di Catania aveva, quindi, del tutto violato il disposto dell’art. 33 L. n. 104 del 1992, ignorando quanto già statuito dalla Corte costituzionale e dai giudici amministrativi (Cons. Stato, sez. IV, 21 aprile 1997, n. 425, id., Rep. 1997, voce Ordinamento giudiziario, n. 112) e prendendo a presupposto della propria decisione un inesistente diritto al trasferimento ove nel corso del rapporto di lavoro sopravvenga la volontà del lavoratore di ottenere l’assegnazione di una nuova sede per instaurare l’assistenza del familiare portatore di handicap grave o dare continuità a tale assistenza.

Per di più il tribunale aveva errato anche nel non escludere la sussistenza di una convivenza di fatto del Calabria con la sorella, residente in Palermo, dal momento che lo stesso Calabria lavorava a Catania per sei giorni la settimana e che, in tale situazione, non poteva assumere alcun valore il riferimento effettuato dai giudici d’appello al disposto dell’art. 44 c.c..

Ed ancora qualsiasi richiamo a presunte deficienze di organico non potevano essere prese in considerazione atteso il potere discrezionale dell’imprenditore nell’organizzazione della sua azienda.

Né poteva tralasciarsi di considerare che la sorella del lavoratore a partire dal 1994 conviveva con la cognata (libera da impegni di lavoro), che essendo un affine di primo grado rientra, ai sensi del 5′ comma dell’art, 33, fra i soggetti idonei a prestare la necessaria assistenza.

Il motivo di ricorso è fondato e, pertanto, merita accoglimento.

L’art. 33, 5° comma, l. 5 febbraio 1992 n. 104, detta testualmente: “il genitore o familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente o affine entro il terzo grado handicappato, con lui convivente, ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede”.

Tale disposizione fa parte di una normativa, quella della legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale ed i diritti delle persone handicappate, il cui complessivo disegno è fondato sull’esigenza di perseguire un evidente interesse nazionale, stringente ed infrazionabile, quale è quello di garantire in tutto il territorio nazionale un livello uniforme di realizzazione di diritti costituzionalmente fondamentali dei soggetti portatori di handicap (cfr., in tali sensi, Corte Cost. 29 ottobre 1992, n. 406, id., Rep. 1992, voce Sanità pubblica, nn. 174-18 1).

Si è venuta così a realizzare una tutela del portatore di handicap destinata ad incidere in settori diversi, prevedendosi interventi di tipo sanitario ed assistenziale, forme concrete di interazione scolastica e di inserimento nel campo della formazione professionale e nell’ambiente di lavoro, e contemplandosi altresì l’eliminazione di tutti quegli ostacoli (quali, ad esempio, le barriere architettoniche) che limitano il regolare dispiegarsi della vita di relazione per ledere – attraverso una non completa possibilità di esercizio di diritti costituzionalmente garantiti – la sua “persona”.

In tale contesto normativo non poteva non attribuirsi il dovuto rilievo anche all’istituto familiare perché non vi è forse settore in cui la dedizione alla famiglia risulti maggiormente utile di quanto lo sia per l’assistenza ed il sostegno degli handicappati.

Ed appunto in un’ottica di piena soddisfazione delle indicate esigenze va letto l’art. 33 1. n. 104 del 1992, e – per quanto attiene alla presente decisione – il 5° comma di detto articolo, che tende al “mantenimento” della convivenza tra il genitore e il lavoratore familiare – con rapporto di lavoro pubblico e privato – ed un suo parente o affine entro il terzo grado handicappato, assistito con continuità.

Il lavoratore infatti ha diritto a scegliere la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio ed inoltre non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede.

Tale diritto che trova la sua ratio nell’esigenza di evitare l’interruzione dell’effettiva ed attuale convivenza, che potrebbe avere negative ricadute sullo stato fisico e psichico dell’handicappato, non risulta però illimitato.

Ed invero, come è dimostrato dall’inciso “ove possibile”, di cui al citato 5° comma dell’art. 33, il diritto alla effettiva tutela dell’handicappato, al cui perseguimento devono partecipare anche lo Stato, gli enti locali e le regioni, nel quadro dei principi posti dalla legge – e secondo le modalità ed i limiti necessari ad assicurare l’effettiva soddisfazione dell’interesse comune – non può essere fatto valere, alla stregua del generale principio del bilanciamento degli interessi, allorquando l’esercizio del diritto stesso venga a ledere in misura consistente le esigenze economiche ed organizzative del datore di lavoro perché tutto ciò – segnatamente per quanto attiene ai rapporti di pubblico impiego – può tradursi in un danno per la collettività.

Sotto altro versante la chiara lettera del 5° comma dell’art. 33 – messo anche in relazione con i restanti commi dello stesso articolo – dimostra chiaramente che il diritto del genitore e del familiare lavoratore dell’handicappato non può farsi valere nei casi in cui la convivenza viene interrotta con l’assegnazione della sede lavorativa, ed il genitore o il familiare tendono, successivamente, a ripristinarla attraverso il trasferimento in una sede vicina al domicilio dell’handicappato.

A tale riguardo va ricordato che il giudice delle leggi con sentenza 29 luglio 1996, n. 325 ha statuito che non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 33, 5° comma, l. 5 febbraio 1992 n. 104, che assicura il diritto di scelta della sede lavorativa (ed a non subire trasferimenti senza il suo consenso) al genitore e familiare lavoratore convivente con l’handicappato sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento rispetto all’ipotesi in cui il lavoratore non sia convivente con il disabile.

A tale riguardo la Corte costituzionale, pur riconoscendo che la questione richiede attenzione, tanto sono importanti i valori costituzionali che concorrono alla protezione del portatore di handicap, aggiunge poi che, con il riconoscere il diritto al trasferimento anche nel caso in cui il bisogno all’assistenza sorga quando il lavoratore non sia più di fatto convivente, “si rischia di dare alla norma un rilievo eccessivo, perché non è immaginabile che l’assistenza al disabile si fondi esclusivamente su quella familiare, sì che il legislatore ha, con la legge quadro n° 104, ragionevolmente previsto – quale misura aggiuntiva – la salvaguardia dell’assistenza in atto, accettata dal disabile, al fine di evitare rotture traumatiche, e dannose, della convivenza” (cfr. in motivazione Corte cost. 29 luglio 1996, n. 325, cit.).

La disposizione ora indicata è pertanto razionalmente inserita nel complesso normativo di cui fa parte, senza con ciò “escludere che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, possa in futuro rivedere ed eventualmente ampliare l’art. 33, 5° comma” (cfr. ancora in motivazione Corte cost. 29 luglio 1996, n. 325, cit.).

Questa corte non ignora che di recente il legislatore – in attuazione di quel potere di regolamentazione che il giudice della legge ha previsto che potesse espletarsi – è intervenuto nella materia in oggetto con l’art. 19 1. 8 marzo 2000 n. 53, che ha modificato il disposto del già citato art. 33, 5° comma, l. n. 104 del 1992 nel senso che detta disposizione non richiede più il requisito della convivenza con il parente o affine assistito, ai fini della scelta della sede di lavoro. Ma, al di là della considerazione dei problemi scaturenti dallo ius superveniens e dell’applicabilità alla fattispecie della normativa della l. n. 104 del 1992 ratione temporis, va evidenziato come, anche alla stregua della più recente regolamentazione, la domanda del Calabria non possa essere accolta non avendo lo stesso fornito alcuna prova di avere sempre assistito con continuità la sorella Rosaria, che invece – secondo le sue stesse dichiarazioni – è stata assistita sempre dai suoi genitori.

Alla stregua di quanto sinora detto vanno, dunque, accolte le censure mosse alla sentenza impugnata per avere l’Azienda siciliana trasporti con dette censure addebitato all’impugnata sentenza di avere interpretato la disposizione in esame in senso estensivo, nel senso cioè di riconoscere il diritto al trasferimento al Calabria nonostante che quest’ultimo, assunto in servizio e dopo avere prestato (e continuato a prestare) attività lavorativa a Catania, ha poi chiesto nel 1994 di essere trasferito a Palermo, dove aveva nel frattempo iscritto la propria residenza, per effettuare assistenza per la prima volta alla propria sorella handicappata.

Alla luce delle considerazioni sinora svolte devono ritenersi assorbite le censure mosse dall’azienda ricorrente alla sentenza impugnata nella parte in cui ha dato rilievo, ai fini della decisione, al trasferimento della residenza del Calabria nella città di Palermo, circostanza questa che invece, per quanto sinora detto. non assume di contro alcuna rilevanza. (Omissis)

La fattispecie si caratterizza per avere il lavoratore iscritto la propria residenza nella sede per la quale ha richiesto il trasferimento.
Con questa sentenza la Cassazione conferma la propria giurisprudenza in argomento (Cass. 6 aprile 1999, n. 3306), puntualizzando – ed è il profilo di maggiore interesse – come, a prescindere dai problemi di diritto intertemporale legati all’entrata in vigore dell’art. 19 l. 8 marzo 2000 n. 53, sia necessaria, anche alla stregua di quest’ultima, la prova della fornitura dell’assistenza con continuità del familiare portatore di handicap da parte dei lavoratore richiedente (conforme, l’inedita App. Milano 30 novembre 2000).
Sempre nella medesima direzione e prima dell’entrata in vigore della l. n. 53/2000:
Cass. 29 marzo 1999, n. 3027; Cons. Stato, sez. IV, 21 aprile 1997; Tar Lazio, sez. I, 18 Maggio 1998, n. 1696.
Per Cons. Stato, sez. III, 9 giugno 1998, n, 23/98, sussiste il requisito della convivenza tra il lavoratore richiedente e l’assistito, nonostante la lontananza, quando tra i due interessati permangono concretamente stretti legami di assistenza materiale e morale.

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