Disabilità: discriminazione e tutela

discriminazione e tutela

La disabilità consiste nella condizione personale di colui che, a causa di menomazioni o minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali, congenite o acquisite, ha una ridotta capacità d’interazione con l’ambiente sociale.

Ne consegue che il disabile è meno autonomo nello svolgere le attività quotidiane, e spesso si trova in condizioni di svantaggio nel partecipare alla vita sociale; i disabili, come è noto, incontrano quotidianamente delle barriere attitudinali ed ambientali, le quali possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di parità ed uguaglianza con gli altri individui.

Tale situazione impone una tutela maggiore nei confronti di questa categoria da parte del legislatore; è compito delle istituzioni rimuovere gli ostacoli alla libera determinazione degli individui.

La tutela dei disabili assume forte rilevanza sia sul piano della regolamentazione nazionale che europea. In particolare, attraverso l’emanazione dei decreti legislativi 9 luglio 2003, n. 215 e n. 216, il legislatore italiano ha attuato due importanti direttive europee, obbligandosi al loro contenuto normativo: la direttiva 2000/43/CE sul principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, e la direttiva 2000/78/CE sul principio della parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

Pertanto, tali norme sono entrate a far parte del nostro ordinamento, assumendo carattere vincolante, al pari di qualsiasi disposizione di diritto interno.

Analogamente rilevante, in materia, risulta essere la legge 1 marzo 2006 n. 67, recanti misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni.

Tutta la regolamentazione sopra descritta è volta, fondamentalmente, all’eliminazione di ogni atteggiamento discriminatorio del quale i disabili possono essere vittime proprio in conseguenza del loro status.

In generale, per “discriminazione sulla base della disabilità” si intende qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità dell’individuo, che abbia lo scopo, oppure l’effetto, di pregiudicare o annullare il riconoscimento, godimento e l’esercizio di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale e civile, sulla base dell’uguaglianza con le altre persone.

Essa include anche il rifiuto di quelle modifiche ed adattamenti che si ritengono necessari in virtù della condizione di disabilità che non impongano un carico sproporzionato ed eccessivo, affinché si possano assicurare al disabile il godimento e l’esercizio dei propri diritti.

Ai disabili, dunque, deve essere garantito un trattamento paritario nell’interrelazione con gli altri soggetti della società civile.

L’attuazione del principio della parità di trattamento tra le persone nei diversi ambiti sociali deve essere inteso quale “assenza” di qualsiasi discriminazione, diretta o indiretta, per motivi di disabilità.

La discriminazione si definisce “diretta” quando, per motivi connessi alla disabilità, una persona viene trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra persona non disabile in una situazione analoga; essa è, invece, “indiretta” quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono una persona con disabilità in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altri individui non disabili.

Nella definizione di discriminazione, rientrano anche le molestie e tutti quei comportamenti indesiderati che creano nei confronti dei disabili un clima di intimidazione, ostile e degradante, nonché umiliante ed offensivo.

Occorre sottolineare che anche l’ordine impartito da altri di discriminare degli individui per motivi di disabilità è considerato un comportamento discriminatorio vero e proprio, tutelato dall’ordinamento.

Il principio di parità di trattamento dei disabili si applica indistintnte a tutte le persone, sia nel settore privato che pubblico, con specifico riferimento ai criteri di accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione; all’occupazione e condizioni lavorative, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni di licenziamento; all’accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento, formazione e tirocini professionali; alla protezione e sicurezza sociale; assistenza sanitaria e prestazioni sociali; istruzione e accesso a beni e servizi, incluso l’alloggio.

In generale, i diritti delle persone con disabilità hanno costituito l’oggetto di un’importante Convenzione internazionale dell’ONU, della quale sono stati conclusi i lavori nel 2006 dopo un lungo cammino: ad essa hanno aderito e si sono uniformati vari Stati Europei, tra cui l’Italia, che l’ha ratificata con la legge n. 18/2009, uniformandosi alla stessa e facendo propri i principi fondamentali ivi indicati.

La suddetta Convenzione riafferma in particolare i principi dell'”universalità, indivisibilità, interdipendenza e interrelazione di tutti i diritti umani”, e riconosce altresì che la “discriminazione contro qualsiasi persona sulla base della disabilità costituisce una violazione della dignità inerente e del valore della persona umana”.

Il contenuto di tale Convenzione è molto vasto: si parla, tra l’altro, dei diritti dei disabili nell’ambito dell’istruzione, della salute, accesso alla giustizia, del diritto alla partecipazione alla vita pubblica, culturale e politica, al tempo libero e allo sport, nonché del diritto ad un adeguato standard di vita e protezione sociale.

Scopo della convenzione è, difatti, quello di migliorare le condizioni di vita dei disabili, fornendo loro maggiore tutela ed eliminando le barriere alla loro determinazione nella società.

Con la stessa, gli Stati Parti si sono impegnati ad adottare tutte le misure legislative ed amministrative ritenute appropriate volte, oltre a proibire qualsiasi forma di discriminazione, anche a sensibilizzare la società ed a combattere i pregiudizi nei confronti delle persone disabili.

Affinché essi possano vivere in maniera indipendente, nonché partecipare attivamente alla vita sociale, le istituzioni hanno l’onere di eliminare ostacoli e barriere all’accessibilità “fisica” dei disabili negli edifici, trasporti, scuole, strutture sanitarie, luoghi di lavoro ed, in generale, di tutti i luoghi aperti al pubblico; inoltre, lo Stato deve mettere a disposizione delle persone con disabilità forme di aiuto e servizi di mediazione per agevolare le relazioni sociali, quali guide, animali addestrati, esperti nel linguaggio dei segni, nonché per rendere possibile l’apprendimento scolastico, attraverso efficaci misure di supporto individualizzato.

Inoltre, occorre sottolineare che le persone con disabilità hanno il diritto di godere del più alto standard conseguibile di salute: ad essi è garantito l’accesso a servizi sanitari che tengano conto delle specifiche differenze di genere e, altresì, la possibilità di usufruire di programmi sanitari gratuiti o a costi sostenibili.

La Convenzione pone l’accento, altresì, sul diritto dei disabili di accedere alla giustizia in condizioni di eguaglianza con gli altri soggetti, attraverso la previsione, da parte degli Stati Parti, di “appropriati accomodamenti procedurali o in funzione dell’età”, allo scopo di permettere loro di partecipare in modo effettivo a tutte le fasi del procedimento legale.

Per “accomodamento” deve intendersi, come specificato dall’art. 2 della medesima Convenzione, il complesso delle modifiche ed adattamenti necessari “che non impongano un carico sproporzionato o eccessivo”, affinché venga assicurato ai disabili l’esercizio di tutti i diritti umani.

Tuttavia, occorre sottolineare che, sul piano processualistico, la tutela dei disabili risulta vincolata ad un dato temporale assai ristretto, dal momento che i disabili possono ricorrere alla competente Autorità Giudiziaria per far valere i propri diritti entro un termine di decadenza che, generalmente, per le varie ipotesi, è di sei mesi.

Dunque, sotto questo punto di vista, l’Italia non sembra essere ancora in linea con i dettami ONU.

Con la legge n. 18/2009, l’ordinamento italiano ha ratificato altresì il Protocollo Opzionale alla Convenzione europea, recependo il suo contenuto: esso, composto da 18 articoli, prevede un sistema di controllo volto a verificare l’osservanza della Convenzione stessa, attraverso l’istituzione di un Comitato per i Diritti delle Persone con Disabilità.

Tale controllo si esplica su due piani diversi: da una parte, gli Stati firmatari si impegnano ad inviare al Comitato, ad intervalli regolari, dei rapporti sulle misure adottate in attuazione della Convenzione, esaminati i quali, il Comitato può, se necessario, formulare suggerimenti e raccomandazioni di carattere generale.

Dall’altra, il Comitato è competente a ricevere ricorsi da parte, o in rappresentanza, di individui o gruppi di individui che si ritengano vittime di violazioni delle norme della Convenzione da parte di quello Stato aderente, sotto la cui giurisdizione si trova il ricorrente.

L’organismo di cui sopra, prima di decidere nel merito può, in casi di urgenza, far sì che lo Stato prenda le misure conservative necessarie per evitare danni irreparabili alla vittima, causati dalle presunte violazioni.

La relativa procedura prevede anche la possibilità di inviare nel Paese interessato personale incaricato dal Comitato per condurre un’inchiesta e di riferirne senza indugio i risultati al medesimo.

In tal caso, dopo aver esaminato i risultati dell’inchiesta, il Comitato li trasmette allo Stato Parte interessato, accompagnati, ove del caso, da commenti e raccomandazioni. Inoltre il Comitato può invitare lo Stato Parte interessato ad includere, nel periodico rapporto sull’attuazione della Convenzione da inviare al Segretariato Generale dell’Onu, precisazioni sulle misure adottate a seguito di tale inchiesta.

Sul piano nazionale, in tema di tutela giurisdizionale dei diritti dei disabili, dal 7 ottobre 2011 sono entrate in vigore nuove disposizioni in materia di procedimento per l’azione giudiziaria civile anti-discriminazione, attraverso l’emanazione del D.lgs. n. 150/2011.

In sintesi, l’art. 28 del decreto legislativo sopra citato stabilisce che le controversie in materia di discriminazioni per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, per motivi di disabilità, età, convinzioni personali e orientamento sessuale, ed altresì per motivi di genere sessuale nell’ambito dell’offerta di beni, sono regolate dal rito sommario di cognizione di cui al capo III bis del titolo I del libro quarto del codice di procedura civile (art. 702-bis, ter e quarter del c.p.c.) e non più dal procedimento cautelare atipico di cui al vecchio art. 44 del T.U. Imm.

Ne consegue che, attualmente, le azioni civili anti-discriminazioni devono essere proposte davanti al Tribunale in composizione monocratica del luogo di domicilio della parte istante ex art. 702-bis e ss. del c.p.c., mediante presentazione del ricorso.

Rispetto all’onere probatorio, il ricorrente può limitarsi a fornire in giudizio gli elementi di fatto dai quali si può desumere prima facie l’esistenza del comportamento discriminatorio; la nuova normativa permette alla parte istante di utilizzare sul piano probatorio anche dati di carattere statistico, generalizzando ed estendendo in tal modo tale possibilità anche ad ipotesi prima escluse, come quella della discriminazione contro le persone con disabilità.

Rilevante sottolineare che il recente D.lgs. 150/2011 riconferma la risarcibilità del danno non patrimoniale, valutabile dal giudice.

Rispetto alla legittimazione attiva, la normativa in materia attribuisce la possibilità di agire in giudizio per la tutela dei diritti, in nome e per conto del disabile vittima di discriminazione, anche ad associazioni ed enti individuati con decreto del Ministro per le pari opportunità, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, ed inseriti in un apposito elenco approvato con decreto dai Ministri sopra citati (art. 5 D.lgs. 215/2003; art.4 l. 67/2006).

Tra esse anche l’ANMIC di Roma, di cui è noto il lungo impegno e la dedizione nel settore.

Roma, 25/01/2012

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